Coronavirus, il primario di Codogno: “Fondamentali i prossimi tre giorni”

Primario Codogno
Stefano Paglia (Foto Repubblica.it)

Codogno. Dove tutto è scoppiato quasi due settimane fa. Nell’ospedale del focolaio del Coronavirus. Finalmente , Stefano Paglia, che ha vissuto tutto da vicino, ha parlato a Repubblica.it. 

“Stiamo facendo il conto alla rovescia. Monitoriamo minuto per minuto i nuovi contagi nella zona rossa e nelle aree confinanti: ci aspettano altri due giorni con il fiato sospeso per capire se qui la grande ondata dell’epidemia è passata e quando arriverà nel resto della Lombardia”. Ha parlato in questi termini dunque il medico  Stefano Paglia, 49 anni. Lui è il primario dei pronto soccorso di Codogno e di Lodi.

Il probabile  “paziente uno” del Covid-19, grazie alla bravura di un’anestesista  , è stato trovato nel nosocomio di Codogno quasi due settimane fa. Da quel maledetto venerdì, il primario Stefano Paglia non ha “abbandonato la sua nave”.

Insieme al suo staff sta lottando in silenzio. Un lavoro ininterrotto.

Inizialmente sono anche stati accusati, ma sono giustamente vittime di tutto questo: “Nessuna amarezza – dice – la coscienza è a posto. La verità è che a Codogno, grazie a una straordinaria e anonima dottoressa con qualità cliniche di altissimo livello, l’Italia ha scoperto l’epidemia. Ha avuto il tempo per reagire e può tentare di limitarne le conseguenze. L’inchiesta così potrebbe perfino farci scoprire cose interessanti”.

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Vi riportiamo alcune parti prese da Repubblica.it.

Perché fino a oggi lei ha preferito tacere?
“Come ogni altro medico travolto dall’emergenza, penso solo a chi si ammala”.

Cosa è successo a Codogno?
“Il cosiddetto “paziente uno” all’inizio aveva i sintomi classici di un’influenza e per due volte ha negato relazioni sospette con la Cina. Non rispondeva alle terapie ed essendo giovane era stato invitato invano a rimanere in ospedale sotto osservazione. Si è ripresentato il 19 notte, la polmonite si era aggravata, nessun farmaco funzionava. Nel primo pomeriggio di giovedì 20, dopo il trasferimento dalla medicina alle terapie intensive, si è accesa la lampadina all’anestesista che ha salvato tutti dalla catastrofe”.

Quanto tempo è passato prima che scattassero le misure anti-contagio?
“La mia collega, forzando il protocollo, ha fatto fare il tampone. Prima ancora di avere conferme, personale e reparti sono stati messi in sicurezza”.

 

Perché allora l’ospedale di Codogno si è rivelato focolaio del Covid-19?
“Nell’area il coronavirus, senza poter essere individuato, girava almeno da gennaio. A fine dicembre, anticipando il piano di sovraffollamento invernale, avevo aumentato a 18 i letti dell’osservazione breve intensiva. I medici di base registravano un boom di polmoniti: ci siamo preparati senza aspettare i finanziamenti”.

Perché tanti medici e infermieri sono stati contagiati?
“Dopo il primo caso, per tre giorni siamo rimasti senza tamponi. Pur di circoscrivere il focolaio dentro l’attuale zona rossa, sono stati fatti a tappeto. I laboratori del Sacco di Milano e del San Matteo di Pavia si sono intasati. Chi lavora negli ospedali, ha dato la precedenza ai pazienti. L’equivoco è confondere la generosità per un errore”.

Qual è oggi la priorità?
“Quella del primo giorno. Rallentare il contagio per salvare Milano, le grandi città della Lombardia e il resto del Nord Italia”.

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Cosa intende dire?
“Se a Milano, Bergamo e Brescia la percentuale di positivi nei prossimi giorni raggiungerà quella del Basso Lodigiano e ora della Bergamasca, l’organizzazione sanitaria finirebbe sotto forte stress. Per fortuna chi deve sapere, lo sa”.

 

Cosa la preoccupa di più?
“Non sono preoccupato e le persone non devono allarmarsi. L’importante è capire che il sacrificio fatto dentro la zona rossa e lungo la cintura sanitaria creata attorno a Milano, ha un senso e può accelerare la ripresa della salute e di una vita normale. I miei colleghi in Lombardia lo sanno e già stanno facendo ciò che serve”.

Che cosa?
“Dobbiamo tenere duro ancora un paio di giorni. Tra domani e venerdì nella zona rossa scadono le due settimane di quarantena. E’ un termine cruciale per capire il comportamento del coronavirus. Faremo i conti e analizzeremo la tendenza. Anche Milano e l’Italia sapranno qualcosa di più su quanto ci aspetta”.

Perché dice che serve tempo?
“Per organizzarci. C’è bisogno di personale e di apparecchiature. Ma soprattutto di completare la riorganizzazione di strutture e reparti, per non intasare le terapie intensive. I colpiti da Covid-19 non devono entrare a contatto con gli altri pazienti. Se il piano non funzionerà si profilano misure forti per tutto il Settentrione.

Perché il pronto soccorso di Codogno non ha ancora riaperto?
“Come l’intera zona rossa, focolaio dell’epidemia, può rivelarsi anche la prima area virus-free. E’ stata colpita prima e dovrebbe pure guarire prima. L’ospedale di Codogno è stato sanificato ed pronto ad essere strategico quando arriveremo alla fase due della lotta”.

Resta l’emergenza medici e infermieri?
“Fino alle 17 di ogni giorno non sappiamo chi tra noi potrà lavorare il giorno dopo, chi finirà in quarantena, chi ricoverato. Forse all’esterno sfugge l’eccezionalità della situazione. Per ora, grazie ai sostituti, meglio concentrare le forze a Lodi”.

Può fare una previsione?
“No. Dobbiamo assolutamente rallentare il contagio e continuare a riorganizzarci per aumentare gli spazi riservati, a vari livelli, al Covid-19. La fase più assurda forse è passata, ma davanti potremmo misurarci con quella più drammatica. Lavorando con la testa però dimostreremo che la scienza guarisce”.

 

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