Coronavirus, il rianimatore: “Fare una cosa sola per fermarlo in 15 giorni”

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Coronavirus, il rianimatore non usa mezze parole dal Dipartimento di anestesia-rianimazione e emergenza urgenza del Policlinico di Milano

Non usa mezze parole il direttore del Dipartimento di anestesia-rianimazione e emergenza urgenza del Policlinico di Milano, Antonio Pesenti. I rianimatori sono i principali protagonisti della lotta al coronavirus, nelle loro mani passano le vite degli infetti da Covid-19: “La gente ancora va in giro come prima e questo non va bene. Se diciamo di stare a casa, si intende stare a casa. Non si deve andare in giro, non ci devono essere contatti. Ci sono simulazioni che dimostrano che, se si facessero 15 giorni in questo modo, la cosa si potrebbe fermare”. 
”Nella popolazione nel suo complesso non c’è ancora abbastanza consapevolezza – osserva – Basta andare alla stazione di Milano Centrale alle 8 del mattino: c’è folla. Come c’è folla sui metrò. Il nuovo coronavirus va affrontato così, rispettando le misure di distanziamento sociale –  ribadisce l’esperto che in Lombardia è a capo dell’Unità di crisi per quanto riguarda la gestione delle terapie intensive.

Coronavirus, il rianimatore e la lettera

Il responsabile anestesia e rianimazione dell’Umanitas Gavezzeni di Bergamo ha scritto all’Avvenire cosa stanno provando lì dove l’emergenza ha raggiunto i picchi in Italia: “Noi e i nostri genitori la guerra non l’abbiamo vista. O meglio non l’avevamo vista ancora. Ho sempre pensato di essere un cavaliere che sfida a duello rusticano la morte. Restituire l’anima a chi l’ha perduta, mi spiegavano da studente fosse il significato di Rianimazione. Macché, fine del film di 30 anni di professione. Fine del delirio di onniscienza e onnipotenza. Il duello non è più rusticano, non è più uno a uno. Il nemico adesso ti accerchia, sembra come in quei film dove per ognuno che fronteggi dieci ne spuntano da tutte le parti. Puoi solo contenere o abbandonare, e tu, colpito mille volte, non sai neanche perché non muori. Forse per vedere, forse per testimoniare un’umanità che si affanna, che si stringe, che lotta, che sviene, che piange e poi riparte. Forse per vedere la paura di chi curi e quegli occhi che non dimenticherai più, incredibilmente dignitosi come se sapessero che stai facendo il massimo. Non so quando finirà ma so che finirà. Quando questo accadrà chi si è ammalato capirà tante cose e chi ha curato sarà un medico o un infermiere migliore. Ma il vero valore sarà ciò che tutto il resto dell’umanità che per sua fortuna ne è rimasta fuori dovrà cogliere: il valore della solidarietà, dell’unione, dell’inutilità di moltissime cose e della grandezza di poche”.

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